Gravidanze “senza tempo”, per una storia dell´autopercezione del corpo femminile

«Un tempo la gravidanza era prima di tutto la lenta percezione di un’esperienza corporea, ora è diventata la presa d’atto e l’interiorizzazione di un referto medico. »
(IL SOTTILE CRINALE DELL’ESSERE-MEDICO: IL CORPO IATROGENO)

« Le donne si abituano a concepire se stesse come sistemi immunitari regolati dai geni. Si trasformano in contenitori in cui una nuova vita può essere programmata. Invece di aspettare un bambino, un essere che sta per diventare un « tu », seguono sullo schermo del ginecologo l’organizzazione di un qualcosa. »
(CHE COSA FA E CHE COSA VI DICE LA GENETICA: I GENI IN TESTA)

I geni in testa e il feto nel grembo¹ è una raccolta di alcune delle conferenze tenute da Barbara Duden nel decennio 1990-2000, tappe significative del suo percorso di ricerca nell’ambito della storia del corpo, e segnatamente del corpo della donna.
Sforzandosi di immedesimarsi nelle pazienti del dottor Storch di Eisenach, autore tra il 1719 e il 1741 di una poderosa opera sulle malattie femminili – otto volumi che riportano milleseicento casi clinici – Duden guarda al presente con gli occhi di una donna del XVIII secolo. Da questa distanza, sottratto all’abitudine e al pregiudizio che rischiano di farlo sembrare ovvio, il modo in cui oggi viene concepito ed esperito il corpo femminile appare fortemente problematico.
Quello della donna del settecento è un corpo fluido, fatto di umori, primo tra tutti il sangue.

Se il sangue si addensa e ristagna internamente, se il suo flusso mensile si arresta o prende vie improprie (se ad esempio cerca sfogo salendo verso l’alto invece di scendere in basso, provocando emorragie nasali o emicranie) allora si produce uno squilibrio che può trasformarsi in malattia. Il vissuto corporeo è incentrato sulla percezione di questa fluidita,è strettamente legato alla regolarità o irregolarità del sangue,al variare della proporzione tra i diversi umori. E di tale vissuto il medico diventa partecipe attraverso la narrazione dolorosa e drammatica delle pazienti, impegnandosi ad ascoltare con la necessaria compassione, quella mimesis che è parte essenziale della terapia.
Barbara Duden confessa di avere provato fastidio e persino repulsione quando ancora all’inizio del suo lavoro di ricerca leggeva i primi casi clinici di Von Kranckheiten der Weiber; solo più tardi, messe in parentesi le proprie riserve, è riuscita a misurare e a valutare lucidamente lo scarto tra passato e presente: luogo della decorporeizzazione postmoderna, il corpo della donna, privato della sua succulenza, è diventato oggi qualcosa di radicalmente diverso dal corpo che aveva voce nell’ambulatorio del medico di Eisenach.
La ricerca storica di Duden è una somatologia, ricerca sul soma, sul corpo vissuto e sentito in tutta la sua materialità. Se la decorporeizzazione conseguente al dominio del pensiero sistemico e alla gestione tecnologica della vita umana non può essere semplicemente evitata, è tuttavia necessario conservare un atteggiamento scettico e resistente .

In aperta polemica con Judith Butler, Barbara Duden respinge le affermazioni del decostruzionismo accademico, che vorrebbero ridurre il corpo della donna ad epifenomeno del discorso, mero costrutto sociale, e che vorrebbero fare del genere solamente una categoria. Questo modo di pensare autorizza vere e proprie aberrazioni. Infatti la moderna biotecnologia può indurre la donna a concepirsi come un sistema immunitario regolato dai geni, se è vero che il discorso e la pratica medica, così come le campagne di prevenzione sostenute dalle politiche sociali e la vulgata da rotocalco, hanno il potere di generare un corpo fatto per essere misurato, controllato, programmato.
Quello che interessa Duden in quanto storica non sono tanto gli effetti materiali ( economi, fisici, psicologici ) del monopolio del pensiero tecnologico e del progresso dell’ ingegneria genetica, bensì le loro conseguenze sul piano simbolico. Il responso della macchina sostituisce oggi quello che una volta era il primo fondamento della diagnosi: il racconto della paziente, di cui il medico, mettendo in parentesi il suo scetticismo, era costretto a fidarsi. Oggi un soggetto che è il portato di una storia in carne ed ossa viene ridotto al suo bagaglio genetico, e in un’ ottica deterministica è spinto ad identificarsi con un programma la cui astrattezza non ha più nulla a che vedere con il corpo sensibile.
Cito un passo di una conferenza del 1993: « Mi chiedo: come è possibile che in dieci anni lo stile di pensiero da laboratorio biomedico e la terminologia di una medicina degenerata in biotecnologia si siano radicati nel vocabolario del movimento femminile fino a condizionare l’autopercezione delle donne? Come mai le donne sono così bramose di appropriarsi delle parole chiave del programma genetico? » [2]
A segnare un punto di svolta nella storia del corpo della donna è stata l’ introduzione in ginecologia dell’esame ecografico nel corso degli anni ’80. Già la comparsa della pillola, negli anni ’60, indicava un mutamento di paradigma: a differenza degli altri mezzi contraccettivi la pillola interviene sul normale funzionamento dell’apparato riproduttivo alterandolo in modo permanente per tutto il tempo della sua assunzione; non è più possibile parlare propriamente di mezzo, dal momento che la ricerca medica verte adesso sulla possibilità di riprogrammare un sistema. Ma nessuna innovazione apportata in campo medico dalla ricerca tecnico-scientifica fino agli anni ’80 del secolo scorso è paragonabile, quanto agli effetti prodotti sull’autopercezione della donna, all’impiego dell’ecografia ginecologica a scopi preventivi e diagnostici.
La donna gravida ha imparato a concepire se stessa come un sistema immunitario, il proprio utero come ambiente fetale, il bambino di cui è in attesa come feto; ed il feto visibile sullo schermo è l’ immagine risultante dalla composizione di stimoli ottici in cui vengono tradotti i dati rilevati dalla macchina. Barbara Duden non esita a definire “fantasma” il feto in quanto corpo tecnogeno. Eppure è proprio l’ immagine del feto che accentra su di sé l’attenzione della donna. In una sorta di schizo-estesia la percezione cinestetica e tattile del corpo è scissa dalla visualizzazione dell’interno dell’utero, che rapidamente, sotto la guida del medico professionista, diventa la modalità di esperienza privilegiata ( « Spesso mi hanno spiegato che gli esercizi di visualizzazione oggi praticati in fase prenatale possono inibire la capacità di percezione cinestetica a livello tattile della donna. » [3]).
La portata di questo rivolgimento si coglie pienamente attraverso il confronto con la hexis gravida delle pazienti di Storch.
Nel XVIII secolo, quando si arrestava il flusso mensile del sangue, la donna poteva supporre di essere incinta così come sospettare una malattia; solamente il movimento del bambino finiva per confermare la prima ipotesi, e solo allora, dal momento cioé in cui la donna riferiva al medico e ai familiari le sue nuove sensazioni, il suo status gravido veniva ufficialmente riconosciuto. Aspettare un bambino significava allora essere « in buona speranza » ( « in guter Hoffnung » è l’espressione tedesca con cui si designa la gravidanza ). Il tempo della gestazione, che non era ancora fissato di norma in nove mesi, era vissuto come attesa di un evento che un giorno sarebbe accaduto, di una sorpresa che si sperava lieta. In ogni caso, però, solo l’esito della gravidanza avrebbe rivelato se il nascituro atteso era veramente un bambino o piuttosto un omuncolo informe, e forse anche solo sangue o aria.

Il medico, ancorché depositario delle conoscenze teoriche sui fluidi corporei, ovvero di una tradizione risalente ad Ippocrate e a Galeno, basava essenzialmente la sua diagnosi sul racconto della paziente, la cui convinzione di essere incinta sarebbe risultata vera o falsa solamente a posteriori. Il dottor Storch distingueva dunque tra vero e falso, non tra oggettivo e soggettivo.
Oggi è l’esame ecografico, subito dopo il test di gravidanza, a stabilire se una donna è incinta, ad informarla del suo stato oggettivo; è il medico, divenuto ormai un esperto di biotecnica, a relazionare sulle condizioni di salute della gestante e del feto, mentre le percezioni soggettive della donna non hanno più alcun peso a fronte dei dati registrati dalla macchina; oggi il medico è in grado di controllare e programmare la gravidanza, di intervenire sul processo di sviluppo fetale, decidendo se e come operare sulla base di statistiche e diagrammi di rischio. Il corpo della donna è diventato un corpo iatrogeno.
Per le pazienti di Storch il tempo dell’attesa, della buona speranza, era il tempo della luna e del non-dum, del non-ancora racchiuso all’ interno del corpo ed inaccessibile allo sguardo. Oggi il non-ancora è già anticipato nell’ immagine del feto sullo schermo; il futuro comprime, per così dire, il presente, e può essere vissuto come una minaccia incombente se la diagnosi del ginecologo ha il potere di renderlo tale. A questo proposito occorre oltretutto osservare che il sempre più frequente impiego dell’esame ecografico ha prodotto una sensibile impennata delle diagnosi di gravidanza a rischio. Una ricerca di due studiose tedesche ha appurato, ad esempio, che tra il 1987 e il 1999 nella Bassa Sassonia la percentuale delle gravidanze considerate a rischio è aumentata dal 29,9 al 74 per cento: un cambiamento dei parametri in base ai quali viene stabilita la norma può far crescere il numero dei casi considerati fuori norma.

La biologizzazione della persona umana investe oggi la donna con conseguenze che all’epoca di Storch sarebbero state semplicemente impensabili. Oltre ad essere spinta a delegare ad un professionista la “gestione” della gravidanza, la donna deve fare i conti con il discorso della bioetica e con i suoi riflessi nella sfera giuridica.
La sentenza del maggio 1993 della Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca promuove il feto a soggetto giuridico da sottoporre a tutela: un nascituro, che è ancora tutt’uno con il corpo della madre, poiché è riconosciuto come « una vita » acquista tout court lo status di essere umano e quindi di soggetto giuridico, che la legge deve difendere in base al principio generale del diritto alla vita. La gravidanza deve essere concepita come «dualità dinamica», e di questa dualità la donna è costretta ad assumersi le conseguenze. Sempre più spesso le consulenze offerte a colei che deve decidere in merito all’interruzione di gravidanza mirano a sottolineare la responsabilità morale che questa scelta comporta, ad indurre un forte senso di colpa e di impotenza.
Ed è proprio il diffuso senso di impotenza rispetto al pensiero e alla prassi dominanti che preoccupa Duden, tanto più quando si esprime nella lotta per una maggiore informazione medica e per il diritto alla prevenzione.
Invece di lasciare che sia la biotecnologia ad avere l’ultima se non l’unica parola sul corpo della donna, occorre riappropriarsi della capacità di sentire, ritrovare un vissuto corporeo che porta in sé la cifra di una antica e ancora riattualizzabile potenza. Matrice, matrix, è la madre, non un «ambiente fetale». Nella relazione tra donne una pratica maieutica che rafforzi la fiducia nell’ autocezione può restituire al corpo fantasma la sua realtà. È per questo che le vecchie levatrici sono per Barbara Duden interlocutrici privilegiate, che le moderne ostetriche possono ancora prendere ad esempio: « Non possiamo sfuggire all’ambiente tecnico; ma si possono liberare i sensi, il corpo, il cuore della donna dalla prigione che la priva della sua corporeità. Ricordare, rivivere, riscoprire ciò che era in passato l’assistenza al parto può dare (credo) a ogni ostetrica il coraggio, la fierezza e la pazienza per « aiutare » la donna a partorire.»


Paola Polizzotti

 

[1] Barbara Duden, I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, Boringhieri 2006 ( orig. ted. Die Gene im Kopf – der FÖtus im Bauch. Historisches zum FrauenkÖrper, 2002 )
[2] ibid., p.147
[3]ibid., p.197
[4]ibid., p.128