Il lavoro della balia

Dal libro edito da Pacini Editore “Il lavoro di balia, memoria e storia dell’emigrazione femminile da Ponte Buggianese nel 900” un frammento di microstoria ricostruito grazie alla recente sistemazione degli archivi comunali e alla partecipazione corale della collettività.

Infatti il lavoro di sistemazione degli Archivi ha creato l’occasione di un progetto educativo coordinato da Adriana Dadà, docente di storia dell’università di Firenze, che ha visto coinvolto l’intera cittadinanza, a partire dalle scuole elementari e medie.

Il progetto riguardava l’emigrazione femminile ed in particolare quella per baliatico, in questa zona molto diffusa a causa della crisi economica, che ha rappresentato non solo un mezzo di ricongiungimento familiare, ma anche un’opportunità di avere un ruolo attivo nel quadro economico, come anche in quello dei rapporti sociali. Memoria difficile da ricostruire perché segreta e “rimossa” per le separazioni e i dolori che aveva provocato.

Le balie, specie se da latte, erano necessariamente donne sposate in età abbastanza giovane, il che garantiva della loro perfetta salute e delle buone capacità di allattamento.
Dalla famiglia di origine a quella ricevente il passaggio avveniva tramite i componenti della nuova famiglia, in una specie di affidamento che subentrava alla patria o maritale potestà.
Il latte di queste donne diventava merce, e molto preziosa perché “a termine”, con scadenza limitata. La vita delle balie si svolgeva sotto stretta sorveglianza.

A parte qualche foto scattata in occasione di feste di famiglia per riprendere il figlioccio a balia, la vita riportava nell’anonimato di un duro lavoro di contadine queste donne che uscivano dalla famiglia giusto il tempo di far fruttare quel loro latte che veniva tolto anzitempo al figlio naturale per alleviare i problemi di allattamento di madri troppo occupate per sé e i loro mariti, per dedicare questo tempo ed il proprio corpo ad un figlio.
Osteggiate dalla chiesa cattolica che le accusava di abbandonare i loro figli per il gusto del “di più”, il lavoro di balia, era un lavoro “amaro” che permetteva alla famiglia di riprendersi economicamente, di sopravvivere per un po’, ma che tante lacrime faceva versare. “Piangevo sempre quando partivo, perché lasciavo il sangue del mio sangue, piangevo quando tornavo perché riprincipiavo a fare il lavoro della contadina.”
Il salario da balia era ottimo (anche 3-4 volte quello di un uomo) ma limitato nel tempo, e raramente le cause di disagio che avevano spinto alla partenza venivano superate, costringendo spesso a nuove partenze, fatiche, nuove gravidanze, ad un lavoro interminabile.
Le origini di tale attività sono rintracciabili nel baliatico a domicilio o presso gli ospedali dei bambini abbandonati o orfani. In queste organizzazioni di assistenza le balie erano indispensabili per la sopravvivenza dei neonati (il tasso di mortalità era alto più del doppio tra i bambini abbandonati e orfani).

E quindi, tra il personale, le più remunerate, tanto che se il bambino affidato sopravviveva, rimaneva quasi sempre con la stessa balia, interessata a mantenere quel cespite consistente fino allo svezzamento.
Il fenomeno del baliatico a domicilio era diventato più frequente via via che la borghesia scopriva il ruolo della moglie come rappresentante dello status sociale del marito. Diveniva così naturale destinare parte delle risorse economiche a sgravare le mogli delle fatiche sia fisiche che di tempo che l’allattamento comporta.

Quest’attività era affidata ad una donna che per necessità era disponibile ad allattare un figlio presso la sua casa, o più frequentemente, trasferendosi a casa dei “padroni”. Con il latte di un figlio se ne allattavano due o tre.
Nel ricostruire l’ammontare dei salari percepiti si parla di un terzo del proprio salario di balia ottenuto con il lavoro svolto presso la famiglia del figlioccio, per pagarsi la balia nel paese natale per il proprio figlio. A volte, per risparmiare, quella che partiva ricorreva al “latte vecchio” di una donna che aveva partorito da diversi mesi.
Di quelle che partivano il 39.7% erano dirette in Toscana, il 25 % in altre regioni italiane, il 35% verso altre nazioni: Francia, Tunisia, Algeria, Stati Uniti, Germania, Austria.
Per contattare le balie si usavano “mediatori privati”, il lavoro era regolamentato da leggi soprattutto sanitarie, che venivano ampiamente eluse dalle famiglie ospiti. Al loro arrivo in famiglia c’era un medico a verificare lo stato di salute, mentre ad un fiduciario locale (prete, sindaco, levatrice) si chiedevano garanzie sulla correttezza morale delle persone candidate al lavoro.

I contratti erano quasi sempre verbali e la garanzia era data dall’enorme differenza sociale dei due contraenti, per cui la famiglia della balia non poteva dubitare della parola e del denaro, di una famiglia “così per bene “.
Era interesse principale della famiglia e del figlioccio mantenere la balia in buona salute fisica e mentale per avere “buon latte”, un “latte tranquillo” come veniva definito.

Le balie venivano letteralmente “rivestite”, a loro spettava un corredo dalle 6 alle dodici unità, indumenti intimi, vestiti da casa, vestaglie, grembiuli, pettorali ricamati, pieni di trine. Portavano cuffie o cappelli caratteristici come si riconoscevano dai gioielli, soprattutto di corallo, pietra portafortuna per conservare il latte buono ed abbondante. Le balie vivevano non come serve, ma servite dalle altre donne di servizio, spesso mangiavano a tavola con i padroni, che così potevano controllare che assumesse un’alimentazione adeguata.

Si tratta di uno stravolgimento enorme, di cui le balie parlano continuamente. Non solo, appena i padroni si accorgevano di qualche piccola tensione, nostalgia, la riempivano di regali. Erano attenti anche a spostarle in residenze fresche d’estate. Fanno la vita da signore, un’occasione che non avranno più possibilità di provare nella vita. Tanto che molte decidevano di tornare dalla famiglia ospite come balie asciutte o come guardarobiere.
La “procaccia” era la sensale delle balie, si davano da fare per conoscere tutte le donne incinte per assicurare alle famiglie richiedenti la balia adatta.
La distanza da casa dipendeva dalle necessità economiche della famiglia della balia, chi ospitava il figlioccio in casa guadagnava un terzo di chi andava a casa dei padroni.
A volte il trauma e la sofferenza emotiva era insopportabile, e le balie appena giunte nella casa, perdevano il loro latte. Altre raccontano con orgoglio di avercela fatta a resistere.
Ma la nostalgia doveva essere tanta, la nostalgia per quanto di dolce, di tenero, si sarebbe perso dei propri figli. “Perché quelle piccole gioie che danno quando sono piccini io le ho perse”.